Esterno notte, come si scrive nei copioni seri. Un taxi, un gruppetto di stranieri che parlano, il fumo bianco che esce dai tombini. Siamo a New York e gli stranieri siamo noi. Parliamo della Maratona e allora il tassista si incuriosisce, si volta verso il mio amico Christoper e gli chiede: “Fai la maratona? E quanti anni hai?” Chris risponde e il tassista lo etichetta subito come un barattolo di pelati: “Ma non sei troppo vecchio per fare la maratona?”
Non è la prima maratona per Chris, né tantomeno la prima che fa a New York, ma lui non si scompone. Lo guarda e risponde: “Non sono preoccupato se la farò anche in 6 o 6 ore e mezza, perché qualunque sia il mio tempo, io so che solo l’1% della popolazione mondiale riesce a finire una maratona. E io sono in quell’1%”
Due anni fa sono partita facendo solo un chilometro e mezzo, due al massimo. Ho corso fino a che il dolore si è fermato, ma io no.
Nella mia wave di partenza non c’era nessun altro del mio gruppo. Davanti a me una signora un po’ in carne con i capelli viola come la sua felpa, con su scritto “Be Fearless, Be Free”. Quando sono arrivata in fondo al ponte Da Verrazzano mi sono ritrovata davanti una signora attempata con un marsupio in vita e dentro due casse che suonavano “The Greatest Show”. L’ho superata e ho proseguito, sorridendo per quasi tutto il percorso.
Al decimo chilometro mi sono detta: ne mancano solo 32.
Al ventiduesimo chilometro il ginocchio accidentato faceva male, così male che ho temuto di doverla fare a piedi. Ci ho fatto due chiacchiere, ho tirato giù la ginocchiera fino alla caviglia e ho camminato per un po’. Al primo ristoro mi sono bagnata le cosce e il ginocchio, ho sentito il freddo che mi dava sollievo e ho ripreso.
Sono ripartita piano, ma con la certezza che sarei arrivata e allora mi sono divertita. Ho ballato la Conga con una donna di colore corpulenta che stava a lato della strada con una radio anni ’80 gigantesca, poi ho shakerato e urlato con un gruppo di scalmanati che mi incitavano; se nessuno incitava, ero io la prima a urlare. Il fiato non mi è mai mancato. Ho dato il cinque a tutti i bambini di cui ho incrociato lo sguardo e persino a un gatto tenuto in braccio dalla padrona.
Prima di Manhattan ho trovato Chris che correva felice, come me, riprendendo le persone che stavano lungo il percorso. Ho sentito che il ginocchio stava bene, mi sono lasciata Chris alle spalle e ho accelerato. L’entusiasmo ha preso il sopravvento. Mi sono detta: “Sei a 28 km e non li avevi mai fatti. Ehi sei a 30 km e non li avevi mai fatti…”. A un certo punto ho sentito la voce dei miei colleghi, poi ho girato l’angolo, ho visto un cartello “Welcome to Central Park” e ho iniziato a piangere di un’emozione mai provata. Era quella che provi per una nascita, probabilmente la mia.
Quando sono arrivata non sentivo nemmeno freddo, ho urlato e fatto la matta. Mi sono scattata subito la foto di rito, quella mentre faccio la linguaccia e l’ho mandata a mio figlio. Ho urlato forte la mia gioia al mio allenatore, alle amiche che mi seguivano come si fa con una sorella, con una nave che aspetti in porto. Ho cantato e ballato per me stessa e da sola, nel buio, mi sono avviata a piedi verso l’albergo tutta avvolta nel mio poncho blu.
Quando riguardo queste foto mi vedo bella per la prima volta nella mia vita. Eppure non lo sono.
Sono nell’1% della popolazione mondiale però. Questo sì.